SUPERIORE

Villa Ventosa. I cambiamenti che ci fanno stare meglio

Villa Ventosa. I cambiamenti che ci fanno stare meglio

Possono una casa e il suo giardino essere protagonisti di un romanzo? Noi attente abitatrici, sappiamo bene che le case e i giardini hanno un’anima, un carattere, una storia, un’inclinazione, un talento, sono vivi, quindi assolutamente sì, possono essere protagonisti di un romanzo. Ed eccolo qui il nostro romanzo, un bellissimo Adelphi che nel verde della prima di copertina ci offre, attraverso una finestra aperta,  la veduta di un giardino all’inglese. Si tratta di Villa Ventosa, della scrittrice inglese Anne Fine.

Che la nostra casa abbia o non abbia un giardino, un balcone, una terrazza, grandi, piccoli, minuscoli, sappiamo bene come quegli spazi aperti, quegli spazi “fuori”, non siano prolungamenti della casa, bensì siano casa. Giulietta per confessare a se stessa l’amore che prova per il bel Montecchi, non esce forse sul balcone? È lì, non nel chiuso di una camera, che ad alta voce dice il suo più intimo segreto di giovanissima innamorata. Pochi giorni fa, in questo mite autunno, una conoscente, raccontandomi i suoi pomeriggi casalinghi trascorsi all’aperto nel suo terrazzo, mi ha detto: “Il terrazzo è la stanza della casa che vivo maggiormente”. Quando ci si siede al tavolino del proprio piccolo balcone o ci si sdraia nell’erba primaverile del nostro giardino forse non ci sentiamo a casa?

Villa Ventosa è un tutt’uno con il giardino che la circonda e Lilith Collett, la padrona di casa, e la sua famiglia sono indissolubilmente legati alla casa e al suo giardino, nel bene e nel male.

“Magari se arriviamo presto tua madre ci farà assistere a una bella sfrondatina”, con queste parole pronunciate dal fidanzato del figlio di Lilith, William, si apre il romanzo. Sfrondatine, sradicamenti, radicali potature, “Chissà che cosa disboscherà oggi”. Senza battere ciglio la signora Collett diserba, strappa, sarchia, taglia, brucia, abbatte, stecchisce, zappa, cancella tutto: il giardino giapponese, l’edera, i cespugli, le campanule,  il filadelfo, i sentieri, l’achillea, i rampicanti, i mazzi di fiori, l’Aubrieta, i bulbi, i rosai, la siepe di bosso, la mimosa, il laburno, la panchina di legno, il ciliegio, la meridiana. La signora Collett riesce persino a candeggiare dal muschio la vecchia vasca di pietra che conteneva i pesci rossi. Spettatori annichiliti e disperati dello scempio sono i quattro figli, adulti, che possono solo ricordare  la casa e il giardino dove hanno vissuto e sono cresciuti, come Barbara: “Mi basta immaginare. Comincio sempre dall’estate. Sento il calore dei sentieri lastricati, sotto i piedi nudi. Il profumo dei piselli odorosi mi dà alla testa. E poi, all’improvviso, mi ritrovo in una di quelle giornate immobili e silenziose di fine estate, quando persino l’aria sembra in attesa di qualcosa. Semplicemente in attesa. E dopo immagino ottobre, con i suoi colori fantastici e le foglie da prendere a calci. Ci sono le mele che mi cascano tutto attorno. Sento proprio il rumore di quando atterrano sul prato! Allora penso che è autunno. Già. L’autunno non finiva mai. Era il periodo più bello. La mattina uscivi e le siepi erano tutte coperte di ragnatele che luccicavano al sole. C’erano dei piccoli banchi di bruma che potevi spostare camminando. E poi l’inverno. Rami neri e secchi contro il blu. Cieli rosa e argento. La brina scintillante…”.

O come William, per il quale le zappate e le forbiciate della madre sono come colpi inferti nella sua carne, il giardino è come un corpo ferito, mutilato. Ognuno dei figli, benché ormai distanti da Villa Ventosa, vorrebbe riavere il giardino dell’infanzia, rigoglioso , un intrico di verdi, il loro regno, quando la madre, troppo indaffarata, non si occupava del giardino e lo lasciava crescere libero e selvaggio. Lilith invece, di quel giardino, simbolo della casa, non sopporta neppure più il ricordo e per lei è ora di cambiare aria (non posso dire come, vietato spoilerare), da anni per lei il giardino non è più un rifugio, un posto in cui sfuggire alla vita fagocitante di madre di quattro figli. Villa Ventosa è l’ironico e coraggioso racconto di una donna sovversiva che si incammina verso l’ultima stagione della sua vita rivendicando il diritto di coltivare  ancora dei sogni e scegliendo di osare il cambiamento, mentre i più giovani, i suoi figli, “avrebbero bandito qualunque forma di cambiamento” per mantenere le cose così come erano sempre state. Una madre che dà ai suoi figli un “colpo necessario”, “la sua vita non sarebbe ruotata per sempre attorno a loro”. La casa, il giardino, lo sappiamo bene, sono le relazioni familiari delle nostre vite che Anne Fine indaga senza paura e senza tabù. Il romanzo ci insegna che il cambiamento può passare da una casa e da un giardino.

Villa Ventosa ci suggerisce una pratica liberatoria: proviamo a riconoscere nella nostra casa, sul nostro terrazzo, nel nostro giardino un elemento, un oggetto,  un arredo, una pianta, un colore, un tessuto, una forma che ci rendiamo conto non avere più nulla a che fare con noi, che per qualche intima e profonda ragione, ci infastidisce o persino ci fa male vedere, toccare, e troviamo il nostro soggettivo, personalissimo modo di fare i conti con quella “cosa ingombrante”.

Mi chiamo Simona, vivo a Mandello e la mia casa si affaccia sul Lago di Lecco, sì proprio su quel ramo sulle cui sponde Renzo e Lucia sono stati promessi sposi. Sono una mamma non più giovanissima e le mie bellissime figlie abitano altre case. Da molti anni insegno letteratura italiana e storia in un Istituto tecnico e sono sempre stati tanti i libri che sono passati fra le mie mani, che ho letto, sottolineato, regalato, ricevuto, di cui ho parlato con le ragazze, gli amici, gli studenti. Anni fa ne ho scritto anche uno per raccontare la possibilità di praticare la filosofia a scuola, una possibilità in cui credo molto e che mi ha insegnato tanto.

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