SUPERIORE

Vicini di casa

Vicini di casa

Scrivo da una casa priva di vicini di casa. Non è vero, mi correggo: i miei soffitti non coincidono con i pavimenti altrui, le mie pareti non confinano con quelle di altri appartamenti, non sento rumori di passi estranei sopra la mia testa, non arrivano voci  sconosciute da oltre i muri delle mie stanze, eppure vicini di casa ne ho, sempre presenti, sempre visibili, sempre ascoltabili, semplicemente non sono di specie umana, sono alberi, piante, uccelli (altri animali sono miei vicini temporanei, a volte anche a mia insaputa), lago, montagne, cielo, nuvole, sole, stelle, luna, vento. Ho vicini di casa molto belli, molto disponibili, molto presenti.

In tempi di pandemia e di isolamenti forzati, i vicini di casa sono stati per molti una grande risorsa (anche i miei per me), fonte di parole inaspettate nei silenzi innaturali, di aiuti reciproci (i vicini più giovani hanno fatto la spesa per quelli più anziani), di informazioni nei momenti di confusione e di incertezza, di canzoni cantate ai balconi e di aperitivi improvvisati nei cortili delle case di ringhiera.

Qualche giorno fa, una giovane amica, riferendosi alla sua casa cittadina, mi ha detto di trovarla davvero brutta eppure di essere molto contenta di abitarvi e di non volerla cambiare, la casa infatti, mi ha detto, è dotata di un  essenziale aspetto irrinunciabile,  l’appartamento soprastante è abitato da amiche e questa vicinanza rende quella casa il posto migliore in cui vivere, infatti le giovani donne inquiline dei due appartamenti possono condividere molto delle loro vite e goderne.

Non è sempre così, soprattutto in città, inghiottiti dai ritmi frenetici del vivere quotidiano e occupati a risolvere piccoli e grandi problemi della propria vita, spesso ignoriamo i nostri vicini di casa, non ne conosciamo le vite e non siamo nemmeno curiosi di conoscerle, in molte case a più piani, nonostante la vicinanza, prevale l’indifferenza e la noncuranza (sicuramente qualcuna di noi ricorda il bel romanzo L’eleganza del riccio della scrittrice francese Muriel Barbery, in cui una delle protagoniste è Renée, portinaia di un elegante palazzo parigino, la quale, grazie all’indifferenza e alla disattenzione degli inquilini, può nascondere la sua vita segreta e apparire ciò che non è).

Tre piani è un romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2017 (qualcuna potrebbe ricordare di Nevo, il romanzo che lo ha reso famoso a livello mondiale una decina di anni fa, La simmetria dei desideri). E’ una delle tre voci narranti, Dvora, una giudice da poco in pensione  e da poco vedova, a descriverci il palazzo a tre piani in cui i vicini di casa  vivono nell’ordinata, borghese  e tranquilla periferia di Tel Aviv: “Il parcheggio, ordinatissimo. Numerato. Il logo del posto di lavoro appiccicato sul paraurti di tutte le auto. Le piante perfettamente potate all’ingresso. Il citofono appena rinnovato. Le caselle della posta, nemmeno una rotta.  Nessuna con più di due cognomi. Le biciclette sorprendentemente ordinate. Sorprendentemente legate. Il silenzio che tanto ci piaceva. Non c’era musica ad alto volume.  Da nessun appartamento arrivavano le voci di un litigio.  Insopportabile. Un’isola di pace, chiamavo orgogliosa la nostra periferia. In quel momento mi è parsa un’isola di ottusità e conservatorismo… abbiamo vissuto nel Borghesistan. […] Ecco cosa volevo fare, Michael: volevo bussare alle porte di tutti, di Ruth e di Hani e dei Katz e dei Raziel per dire: sveglia […] Non ho detto niente del genere, ovviamente. Non ho bussato a nessuna porta. Non appena ho attraversato il cancello del condominio, la condominialità ha contagiato anche me […] Al secondo piano mi sono fermata di  fronte all’appartamento di Hani. Per una attimo ho pensato di bussare e chiedere un abbraccio, ma la porta sembrava avvertire: non è il tempo né il luogo per gesti del genere. Però quando sono entrata in casa un gesto l’ho compiuto: ho fotografato l’appartamento dalle prospettive migliori. E l’ho messo in vendita su Internet”.

Fra gli inquilini del palazzo, sono tre a raccontarci delle loro vite, tutti e tre, non a caso,  non parlano a chi è loro  vicino, affidano i loro racconti ad ascoltatori in diversi modi distanti. Al primo piano Arnon,  marito di una giovane coppia, padre di due bambine,  racconta i fatti che stanno travolgendo la sua vita ad un vecchio amico che non vede e non sente da anni, al quale invia un sms alle quattro del mattino, che poi incontra in un caffè e al quale chiede disperatamente un consiglio: “Cosa faresti al mio posto, fratello? Adesso che hai sentito tutto. No, sul serio. Non cercare di starne fuori. I tuoi articoli sul giornale li leggo. Hai opinioni su tutto. Spara la prima cosa che ti viene in mente. Sei l’unica persona a cui chiedo consiglio […] Il tuo amico annega, agita le braccia, grida aiuto, aiuto, mentre tu passi in barca. Non ti fermi?”.

Al secondo piano Hani, moglie e madre di due bambini, definita dai vicini di casa “la vedova” a causa delle lunghe assenze del marito che spesso lavora all’estero, racconta la sua solitudine e la sua paura di divenire pazza come la propria madre, ad un’amica dei tempi precedenti i rispettivi matrimoni, un’amica che ha lasciato Israele e vive negli Stati Uniti, un’amica anche geograficamente lontana a cui scrive una lettera: “Ciao Neta, questa lettera ti stupirà senz’altro. E’ molto che non ci parliamo, e poi chi scrive lettere oggi?”.

Infine la terza inquilina a raccontare è la sessantenne Dovra, la giudice, che affida il suo racconto di donna sola segnata da una drammatica scelta fatta in passato, ad una vecchia segreteria telefonica, scovata in un cassetto di casa, a cui telefona per riascoltare la voce del marito morto e per rivelargli, a più riprese secondo i tempi di registrazione della segreteria, gli inaspettati accadimenti della sua vita: “Domani vengono i traslocatori. E dopodomani mattina mi sveglierò per la prima volta in una casa che non è la nostra. In un letto che non è il nostro. Credo che questo sarà l’ultimo messaggio per te. Toglierò le cassette e le conserverò. Magari un giorno, dopo che me ne sarò andata, Benjamin (il figlio di Dovra e Michael) le troverà. E le ascolterà. […] Ma d’ora in poi non si tratta più della nostra strada, amore mio, fiore mio, mia sventura. D’ora in poi è la mia strada”.

Quando Dvora (si è forse capito che il suo racconto è dei tre il mio preferito? Scherzo, ho letto con piacere tutto il romanzo ) decide di chiedere un passaggio in auto ai vicini diretti in città e bussa alle loro porte, il vicino Avraham “come sempre ha detto, entra, entra, perché resti fuori? Intanto stava sulla porta con le mani incrociate sul petto a bloccare il passaggio”. La fatica di comunicare con l’altro e di ascoltare l’altro trova nei rapporti di vicinato una manifestazione evidente e potrebbe offrirci quotidianamente spunti di  riflessione. Anche a chi, come me, a volte dà per scontato di avere per vicino di casa una betulla, un ulivo, l’acqua del lago, il soffio del vento e si dimentica di rivolgere loro un saluto la mattina al risveglio e un ringraziamento per la loro preziosa presenza.  Ognuno di noi sarà in grado di trovare un suo esercizio di vicinanza da praticare nel nuovo anno a partire da un semplice “Come sta?”, pronunciato sulle scale incrociando il proprio vicino.

Mi chiamo Simona, vivo a Mandello e la mia casa si affaccia sul Lago di Lecco, sì proprio su quel ramo sulle cui sponde Renzo e Lucia sono stati promessi sposi. Sono una mamma non più giovanissima e le mie bellissime figlie abitano altre case. Da molti anni insegno letteratura italiana e storia in un Istituto tecnico e sono sempre stati tanti i libri che sono passati fra le mie mani, che ho letto, sottolineato, regalato, ricevuto, di cui ho parlato con le ragazze, gli amici, gli studenti. Anni fa ne ho scritto anche uno per raccontare la possibilità di praticare la filosofia a scuola, una possibilità in cui credo molto e che mi ha insegnato tanto.

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